Alzo lo sguardo. Mi abbaglia la bellezza dell’Ama Dablam, del Lhotse e di altre infinite cime delle quali non ricorderò mai il nome.
Attraverso i tanti paesini lungo il percorso e saluto le genti. Perché loro riescono a regalarmi sempre un sorriso che mi invade l’anima? E viene troppo facile un confronto con il nostro mondo: quante volte succede anche da noi, nelle nostre città, paesi o anche lungo i sentieri di montagna?
Riprendo il cammino. È un ritmo lento e costante, morbido, quasi rotolante, attento a recepire tutte le emozioni che questi posti offrono. Sta a te coglierle.
Talvolta ammiro quanto mi circonda; altre volte, ascoltando i miei sensi, mi ritrovo in un fiume di pensieri.
Un passo dopo l’altro, sempre concentrato su dove metto i piedi. Uno sul terreno, l’altro sulla pietra e quindi di fianco della radice, sempre attento a continuare questo mio procedere fluido e scorrevole. Così anche i miei pensieri e nella mia concentrazione, osservo il colore delle mie nuove scarpe, blu come il cielo terso di questi luoghi. Mentre mi scopro a fare questi infantili e sciocchi pensieri (ma i pensieri mica si comandano, no? Probabilmente emerge solo quello che in realtà si è…) Furba, il portatore che mi segue in questo giro, carico dei miei bagagli, mi supera. È diretto al prossimo paesino dove mi attenderà al nostro lodge per pernottare. Porta il carico con una fascia sulla testa e penso con un certo sollievo che ho scelto bene i materiali da portare: solo l’essenziale, il minimo indispensabile. Così anche per lui queste giornate non saranno troppo faticose. Mi saluta con rispetto e con un sorriso contagioso e ricambio imitando il suo saluto a mani giunte dicendo ‘Namasté’.
Lo guardo allontanarsi con un passo spedito, veloce e leggero. Lo guardo con questo suo carico sulla schiena e con il piumino sempre indossato. Lo guardo con questi suoi blue jeans consumati (altro che materiali tecnici). Lo guardo nei suoi passi… ma… come… è scalzo!!! Uno tsunami di ricordi mi invade, di quanto abbia riflettuto, analizzato, studiato, raccolto informazioni in merito a quale fosse la calzatura più idonea e adatta al trekking che volevo affrontare. Scarpa bassa, mid, scarponcino, Gore-Tex o meno, suola Vibram o altro, … Un mare di ragionamenti, tutti precisi e attenti. Una scelta alla fine personale (mica tutti abbiamo le stesse necessità e gusti) che ritengo aver azzeccato al 100%. E poi passa Lui, carico dei miei bagagli, veloce e leggero come il vento, con un paio di pantaloni che io utilizzerei per… no, non utilizzerei più, con indosso una maglietta di cotone e il piumino, copia di marche famose.
Scalzo…
Senza scarpe, per necessità
Lo fermo e gli chiedo, pur con qualche difficoltà con la lingua, come mai fosse scalzo. Nei giorni precedenti, ne sono certo, se pur non ricordando di preciso, utilizzava qualche calzatura. Mi spiega che stamane le infradito che usava si erano rotte e non era riuscito a ripararle.
Quale altra soluzione poteva avere se non quella di ripartire scalzo?
Penso che nelle valli, ma anche in città, per i bambini quella è una normalità, essere scalzi fa parte dello stato normale delle cose. Gli chiedo comunque se non avesse male ai piedi e mi spiega che bisogna saper scegliere bene dove camminare e come appoggiarli. E io che credevo di essere un ‘tecnico’ della camminata, con il mio ritmo lento e costante, morbido, quasi rotolante…
Non rifletto neppure e gli chiedo il mio borsone. La nostra meta è il Kala Patthar, una cima di 5.600 m sopra il Campo Base dell’Everest, nella valle del Khumbu. Poteva esserci della neve e quindi mi ero portato anche un paio di scarponcini adatti a questo terreno. Li tolgo dal borsone e li calzo. Porgo le mie scarpe color cielo pregandolo di accettarle. Penso che il numero non sarà certamente il suo: normalmente hanno piedi molto più piccoli dei nostri, anche se con la pianta più larga. Penso che però questo sia solo un mio problema; difatti le calza entusiasta e le guarda. E mi guarda. Senza dire parola. È un silenzio pregno di emozione. Reciproca.
Si rialza, riprende sulla schiena il carico e si prepara a ripartire. Si gira verso di me e con le mani giunte mi ringrazia dicendo ‘Dhanyabad Dady, Namasté’. Ha un sorriso diverso, pieno, profondo. Pare commosso. Io lo sono…
E si avvia verso il nostro lodge con le scarpe color cielo.
Riparto anch’io e assieme al passo anche i pensieri. Chissà se apprezzerà tutti quei profili tecnici che avevo così minuziosamente e attentamente analizzato e scelto. Mi convinco di sì, anche se forse non ne avrà la possibilità di rendersene coscientemente conto. È troppo facile vincere il confronto con un paio di infradito…
Sono però certo che apprezzerà il bellissimo color cielo dalle stesse sfumature e toni del blu della valle del Khumbu.
Buon viaggio amico mio, ci vediamo al Lodge per una birra Sherpa.
Le scarpe color del cielo protagoniste di questo pezzo sono le 9.81 N AIR G S MID GTX, che Garmont ha fornito all’autore in qualità di testimonial del brand. Siamo davvero felici che le nostre scarpe siano ora ai piedi di chi vive la montagna ogni giorno, con fatica, portando un aiuto inestimabile ai tanti alpinisti che si avventurano tra le vette dell’Himalaya.