Via normale lungo il “Piton des Italiens”
E’ ancora notte fonda quando iniziamo a salire sul tormentato ghiacciaio del Dôme, i ramponi mordono perfettamente la neve rigelata e le nostre lampade frontali illuminano solo in parte questo angolo remoto del Monte Bianco. La sua complessa parete ovest, di cui sentiamo la presenza senza poterla vedere, ci sovrasta imponendo all’oscurità il rumore dei crolli di alcuni seracchi. Il tempo che appare fermo, per noi viene scandito dal respiro, regolare e senz’affanno. Ma più che la fatica, è l’attenzione ad assorbirci completamente; dobbiamo seguire fedelmente la traccia, le impronte dei ramponi e alcuni pali in legno ci facilitano il compito. Attraversiamo ponti di neve sopra i neri abissi di alcuni crepacci e aggiriamo dei nodi di seracchi che, illuminati dalla lampada frontale, assumono un coreografico aspetto spettrale. Poi, per uscire da questo mondo di ghiaccio e buchi, superiamo il crepaccio terminale e affrontiamo un ripido pendio verso la cresta.
Luca è partito lentamente, certamente non ben riposato dopo il lungo avvicinamento di ieri al Rifugio Gonella. Un sole intenso ci aveva ben presto prosciugato tutte le riserve d’acqua facendoci soffrire la disidratazione sia sul lungo serpentone pietroso del Ghiacciaio del Miage, sia sui tratti rocciosi, ripidi e attrezzati, che conducono al rifugio. Temo che, malgrado il ristoro presso il nuovo rifugio, la sveglia è a mezzanotte non ci abbia consentito un adeguato recupero per affrontare i 1800 metri di dislivello che ci separano dalla vetta. Però nelle poche ore di permanenza presso il Gonella ho potuto apprezzare il profondo respiro del Monte Bianco, che in questo remoto luogo restituisce alla montagna tutta la sua imponenza. Qui non c’è l’affollamento dei rifugi del versante francese da cui ogni giorno partono all’assalto della più alta vetta delle Alpi centinaia di persone, qui ai tavoli, siamo al massimo in venti e solo otto domani affronteranno la via normale lungo il Piton des Italiens.
Ecco, ho raggiunto il Col des Aiguilles Grises e la cresta, qui rocciosa, e la risalgo con facili passaggi.
Ora essa diviene esile e nevosa, e mi obbliga a mantenermi prima sul lato sinistro, poi, ed è il tratto più emozionante, ne calpesto proprio l’apice ponendo con attenzione un passo avanti all’altro. Anche Luca è concentratissimo in questo aereo passaggio, “piano” mi dice, a sottolineare la sensazione di fragilità ad essere sospesi in equilibrio sulla sottile traccia di neve. Illumino con la lampada frontale prima a destra, poi a sinistra, alla ricerca di un riferimento, ma il fascio luminoso si disperde nelle profondità del versante lasciandomi intuire l’abisso. Il buio mi impedisce di vedere l’intero percorso, continuo sulla sinuosa linea con l’idea fantasiosa che essa non esista e che si concretizzi solo pochi metri avanti a me. Poi, poco a poco, sono forse le cinque del mattino, comincia a profilarsi la luce dell’alba. Le sagome delle montagne sono ancora nere ma si può leggerne il profilo. Un’altra mezz’ora lungo la cresta, ora meno affilata ma più ripida, ci permette di guadagnare la sommità del Piton des Italiens che segna anche la fine delle difficoltà. E’ l’alba e si distingue chiaramente la spalla del Dôme di Goûter e il cupolone del Monte Bianco, ma adesso, a quasi 4000 metri, il mio pensiero non è volto alla vetta, ma al Papa. No, nessun pensiero religioso, mi immagino un manipolo di alpinisti, di cui fa parte anche Achille Ratti futuro Papa Pio XI, che nel 1890 da qui inizia la prima “ascensione”, inusualmente in discesa, di questo percorso, che prende anche il nome di via del Papa. Mi immagino queste persone, la loro attrezzatura e il loro vestiario, le loro parole e le discussioni. Me le immagino e sono ammirato da tanta forza di volontà e dalla fiducia che evidentemente essi riponevano nelle proprie possibilità.
Al Dôme di Goûter si incrocia il percorso proveniente dal versante francese e d’improvviso tutto cambia. Sembra di essere su di un’altra montagna, la traccia diventa una pista battuta, liscia e larga, la solitudine di cui avevamo goduto viene annullata da una moltitudine di alpinisti provenienti da tutto il mondo che arrancano e assaltano la vetta. Riposiamo un po’ presso la Capanna Vallot, e, perso ogni timore reverenziale della montagna, ripartiamo di bona lena. Luca, che in altre occasioni aveva sofferto la quota, ora “mette il turbo”. Raggiungiamo ben presto le Bosses di Dromadaire, le gobbe che danno il nome a questa frequentatissima cresta, sorpassiamo altre cordate, aumentiamo ancora il passo e in un’ora esatta siamo sulla vetta, a 4810m!
è una superba giornata di sole, le Alpi del Vallese in Svizzera, del Delfinato in Francia e dell’italiano Gran Paradiso ci fanno corona. Ma non è la grandezza e l’altezza della vetta ad emozionarmi, non è la quota della cima più alta delle Alpi che mi interessa e tanto meno il tempo di percorrenza dell’itinerario. Il motivo del viaggio è viaggiare, e raggiungere la meta non basta, bisogna farlo nel modo più intenso. Con Luca questo è riuscito perfettamente, lui ha compiuto una bellissima salita sognata da tempo, io ho colto una delle più intense soddisfazioni del mio lavoro di Guida Alpina, e il forte abbraccio sulla vetta ha suggellato un’amicizia, come quelle che solo la montagna sa creare.
Per finire, osservo lontana la punta dell’Aiguille du Midi e propongo a Luca un cambio programma: scenderemo attraverso il Mont Maudit e il Mont Blanc du Tacul realizzando così una lunghissima e pregevole traversata del gruppo da ovest verso est.
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